Caso La Russa, innocenti e colpevoli fino a prova contraria: cos’è il victim blaming?

Giorgia Bonamoneta

09/07/2023

Cambia la storia, ma non le modalità di racconto. Sotto la lente d’ingrandimento del caso La Russa ci finisce chi ha denunciato e non il denunciato. Ecco cos’è il victim blaming.

Caso La Russa, innocenti e colpevoli fino a prova contraria: cos’è il victim blaming?

Passa poco più di un mese e il Paese finisce a discutere di un altro caso di cronaca con i termini e i modi peggiori. A trainare il racconto in questi toni, ancora una volta, sono la politica e i media. Si dice sbagliando si impara, ma forse sarebbe più corretto dire che sbagliando si continua a sbagliare perché non si impara proprio nulla. Dal caso di Giulia Tramontano, giovane vittima di femminicidio, non abbiamo imparato a parlare di vittime e carnefici, di presunti innocenti o presunti predatori, ma soprattutto non abbiamo imparato che cos’è il victim blaming e quali sono le conseguenze.

Il caso La Russa è, come si dice in questi casi, da manuale. Un caso che, se non fosse per la differenza fisica e partitica tra i due, sembrerebbe combaciare perfettamente con il caso Grillo. In quell’occasione però la difesa del figlio da parte del padre era stata contestata vivamente da chi oggi, non più all’opposizione, dovrebbe commentare il fatto accaduto in casa propria (Fratelli d’Italia). Giorgia Meloni sul caso Grillo si era espressa duramente sul victim blaming praticato Beppe Grillo nei confronti della ragazza, arrivando a dire che «riteneva vergognoso e inaccettabile che la denuncia di stupro fatta da una giovane donna finisse in pasto alla curiosità generale perché pubblicata e diffusa su giornali e televisioni». Al commento, ancora pubblico su Facebook (datato 25 maggio 2021) aggiungeva che quella di Grillo era “una forma di intimidazione e di avvertimento a non denunciare”. Ora però tace, così come ha evitato di commentare i fatti che hanno coinvolto Daniela Santanchè.

La Russa da parte sua cerca di correggere il tiro, parla di “fraintendimenti”, ma la retorica è piuttosto nota e, in un rapido check, la seconda carica dello Stato ha introdotto tutti gli elementi del victim blaming (ovvero la colpevolizzazione della vittima o presunta tale) perfetto: la denuncia tardiva (dopo 40 giorni dal fatto), il dito puntato verso sostanze assunte dalla giovane e la conseguente messa in dubbio sulla sua versione o, peggio ancora, della sua moralità. Non stupiscono quindi i commenti, anche di alcuni giornalisti, che fanno notare come “se una donna sale in casa di un uomo, lo fa per cosa?” (tweet dell’account @fdragoni di Fabio Dragoni); o ancora Filippo Facci che su Libero scrive “fatta di cocaina prima di essere fatta anche da Leonardo Apache La Russa”.

Ogni parola oggi sotto polemica nasce dalla regola più incompresa di tutte: innocente o colpevole fino a prova contraria. Tutti la pronunciamo, ma si usa davvero solo in determinate circostanze. Il victim blaming, d’altra parte, è un gioco all’intimidazione. Lo dice Giorgia Meloni.

Che cos’è il victim blaming?

-La prevenzione passa anche dal linguaggio usato per raccontare gli eventi che si susseguono nel mondo. E questo registro lessicale necessità di un cambiamento. Così scrive Carlotta Vagnoli in Maledetta sfortuna prima di introdurre una base per un codice etico da adottare in casi di cronaca che comprendono la violenza di genere. Tra i punti si trova anche il far leva sulla “colpevolizzazione della vittima” per minimizzare un reato o un presunto reato.

Il victim blaming è un concetto coniato nel 1971 da William Ryan, uno psicologo statunitense. Il testo di Ryan si moveva come critica a un altro saggio accademico che descriveva le responsabilità delle famiglie nere per la loro povertà. Il concetto è stato ripreso e fatto proprio dal femminismo e viene utilizzato in ambito legale per la difesa delle vittime di stupro in caso accusate di aver favorito o causato il crimine subito.

In altre parole la colpevolizzazione della vittima avviene quando si imputa la colpa del reato alla persona che lo ha subito. Viene anche chiamato “vittimizzazione secondaria”, perché presuppone una seconda aggressione spesso da parte dell’istituzioni, ma può avvenire anche dalle cosiddette agenzie di controllo come medici, avvocati, polizia e mass-media.

Qual è lo scopo del victim blaming e perché funziona così bene?

“Victim blaming” è quindi una pratica violenta che ha lo scopo di neutralizzare la responsabilità del presunto aggressore. Così come si è innocenti fino a prova contraria, dovrebbe reggere anche l’essere vittime fino a prova contraria. Puntare l’attenzione mediatica contro la vittima per screditarla è invece una forma di intimidazione, come ha ricordato la presidente del consiglio Giorgia Meloni e porta al silenzio non soltanto la vittima, ma anche le future vittime per paura di finire nella stessa bolgia politica e mediatica.

La colpevolizzazione delle vittime funziona così bene perché siamo immersi in una cultura che tende a interpretare i comportamenti delle vittime come parte di qualcosa di subdolo. Non si sa bene perché una giovane non molestata dovrebbe denunciare, con il rischio di finire sotto la morbosa attenzione mediatica. Lo fa per la visibilità? Lo fa per i soldi? Le domande più gettonate sono queste, ma domandarsele è proprio il motivo per il quale il victim blaming funziona così bene. Questo, dopotutto, si aggrappa con forza alle “dissonanze cognitive”.

In contesti di devianza il disagio provocato dalle proprie azioni crea una sorta di difesa-distacco. La violenza di genere, per esempio, è una vera e propria piramide che va dal linguaggio sessista e il victim blaming fino allo stupro e il femminicidio (differente dal femmicidio), passando per violenza economica, stalking e catcalling. Negando o attenuando un reato tra questi, anche nella sola ipotesi di reato fino a prova contraria, si sta cercando di ridurre al silenzio una voce per evitare una contraddizione interna, ovvero il tentativo di eliminare un disagio psicologico per compensare la dissonanza e ripristinare l’autostima.

Politica e media: il caso La Russa trattato dai media è solo un esempio tra tanti

“Le parole sono importanti” e non solo per citare cult cinematografici come quello di Palombella rossa di Nanni Moretti. No, le parole sono importanti perché descrivono e plasmano la realtà che ci circonda, le parole hanno potere, ma soprattutto sono armi. C’è la necessità di non puntare armi contro innocenti e in generale di mettere sempre la sicura.

Per questo esistono guide per imparare a parlare di violenza e violenza di genere. Educare alla non violenza passa anche attraverso le parole e la cultura che queste compongono. Così se è vero che le colpe del padre non devono ricadere sul figlio e che si è innocenti fino a prova contraria, allora è anche vero che mettere in dubbio la denuncia della presunta vittima può rappresentare un tentativo di deviare la colpa.

Non sarà l’interrogatorio di La Russa a scagionare il figlio è vero, ma le parole della seconda carica dello Stato rischiano comunque di cambiare fino al processo la percezione che il pubblico ha della giovane che ha denunciato, rendendo traballante l’accusa sulla base di giudizi sulla morale di questa.

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