Caso Giulia Tramontano, i soliti errori e orrori: ecco dove stiamo sbagliando

Giorgia Bonamoneta

04/06/2023

Il caso del femminicidio di Giulia Tramontano ha evidenziato gli errori e orrori di cui l’informazione, la politica e l’opinione pubblica è ancora in grado di macchiarsi. Dove stiamo sbagliando?

Caso Giulia Tramontano, i soliti errori e orrori: ecco dove stiamo sbagliando

Il caso dell’omicidio di Giulia Tramontano, inquadrato come “femminicidio” per le dinamiche che lo caratterizzano, incarna perfettamente tutti gli errori e gli orrori commessi dall’informazione, dalla politica e dall’opinione pubblica. È un caso da manuale: dal victim blaming, allo spostamento dell’attenzione dalla vicenda all’autore, fino alla pura e deprecabile pornografia del dolore che cerca nei dettagli una chiave di lettura intima.

L’emblema dell’errore di comunicazione giornalistica, politica e anche di parte dei commentatori e delle commentatrici vip della scena italiana si può riassumere nella frase utilizzata da La Stampa (poi cancellata) il 1° giugno 2023: “Al Paese serve un’opera di educazione profonda: dobbiamo insegnare alle ragazze a salvarsi”. In altre parole non è l’uomo che uccide a dover essere educato a non uccidere, ma la donna vittima a dover imparare a difendersi. Un modo come un altro per assegnare al maschio il presunto ruolo naturale di predatore e alla femmina quello di preda che sa di doversi alzare ogni giorno e di dover correre più del leone che vuole azzannarla.

L’Italia si ritrova a piangere l’ennesima vittima di femminicidio (47 solo dall’inizio del 2023). Si concentra l’attenzione sul singolo caso, lasciando indietro quanto di utile dalla tragedia si potrebbe estrarre: l’urgenza di contrastare i femminicidi attraverso pratiche di prevenzione e lotta alla violenza di genere e alla violenza domestica. Invece la direzione dell’Italia contro le tematiche gender (presunta e immaginaria “Teoria del gender”) sfavorisce persino l’approvazione della Convenzione di Istanbul. Nell’odio puramente ideologico contro il termine “genere”, Lega e Fratelli d’Italia non hanno votato la Convenzione di Istanbul (approvata dall’Ue con una larga maggioranza), testo fondamentale contro la violenza di genere.

Al pari di raptus, “L’ho uccisa perché l’amavo troppo” o “Ho ucciso Giulia perché ero stressato”, queste narrazioni servono a lavare via la coscienza sporca non solo dell’omicida, ma anche della politica e della cultura che non pongono le basi per contrastare il fenomeno dei femminicidi. Gli errori e gli orrori del racconto del caso di Giulia Tramontano dimostrano solo un fatto: stiamo sbagliato tutto, ancora una volta.

“Non andate all’ultimo appuntamento”: educare le donne a stare al loro posto

Dobbiamo insegnare davvero alle donne a difendersi? “Sembra più facile, tutto sommato, che insegnare agli uomini a non uccidere, picchiare, stuprare, umiliare le donne, no?”, scrive la scrittrice femminista Giulia Blasi. Quello di insegnare alle donne a proteggersi è un modo per rimettere le donne al loro posto e per deresponsabilizzare il colpevole. Non andare all’ultimo appuntamento come invito istituzionale e pubblico non libera le donne, ma anzi le rinchiude nella paura. Nello spazio pubblico, così come in quello privato (dove avvengono l’82% delle violenze), ogni azione rischia di essere fatale, anche quella di parlare.

La colpa ultima del femminicidio è ancora raccontata come della donna. Si arriva così a dire che è colpa della donna se non sopravvive, se non è abbastanza intelligente o furba da non frequentare le persone sbagliate. La procuratrice di Milano, Letizia Mannella - ma anche Michelle Hunziker con parole simili - dopo l’omicidio di Giulia Tramontano ha rivolto alle donne l’invito a non andare mai all’ultimo incontro chiarificatore. Si può leggere l’invito come un “salvatevi da sole” e “non mettetevi nelle condizioni di farvi uccidere”. Si tratta di spostare la responsabilità dalla mano che ha ucciso e dal sistema che lo ha permesso alla vittima.

“Ho ucciso Giulia perché stressato”: raptus, passione e le altre forme di deresponsabilizzazione

La lettura del femminicidio in Italia avviene quasi sempre in chiave patologica, ovvero vede il Paese abitato da uomini psicologicamente disturbati e afflitti da strane forme di stress che esplodono in raptus di gelosia omicida. Troviamo così titoli (tratti da “L’ho uccisa perché l’amavo - Falso!” di Michela Murgia e Loredana Lipperini) come:

  • Uccide la moglie in un raptus di gelosia;
  • Pazzo di rabbia spara alla fidanzata che voleva lasciarlo;
  • Follia omicida: accoltella l’ex compagna sotto casa;
  • Lo tradiva: perde la testa ed è da fuoco;
  • Disoccupato e depresso, strangola la moglie davanti figli.

Lo schema narrativo è sempre lo stesso: il femminicidio raccontato in maniera tale da giustificare l’assassino, alla ricerca di un movente che va dal passionale al clinico. Sono circostanze attenuanti per l’omicida e l’effetto è quello di attenuare anche l’opinione pubblica sul tema del femminicidio. Perché alla fine, si sa, è anche un po’ colpa delle donne che hanno portato l’uomo a compiere quel gesto. No?

Nessuno sta davvero parlando di Giulia. Si parla di lei come madre in potenza o del feto che portava in grembo, ma non di lei in quando persona. Sappiamo però chi è l’omicida nei minimi dettagli, dalla vita con l’amante, ai furti sul lavoro, fino al dolore della madre ripreso in primo piano che non perdona il figlio del brutale assassinio. È una telenovela che racconta la vita dell’uomo-omicida, che si sofferma in maniera malsana sui dettagli scabrosi, approfondendo l’intimità e non analizzando invece il macro fenomeno che porta gli uomini a uccidere. Si chiama pornografia del dolore, così come dire che parte della colpa è di Giulia Tramontano per essersi presentata all’ultimo appuntamento chiarificatore è victim blaming.

Insomma, stiamo sbagliato tutto, di nuovo.

Come affrontare e raccontare i femminicidi?

Esistono diversi modi per affrontare il tema del “femminicidio”. Una parte del lavoro deve essere svolto dalla politica, con strumenti validi di contrasto alla violenza di genere. Uno dei quali, per esempio, è l’approvazione della Convenzione di Istanbul, un segnale forte e che obbliga gli Stati alla creazione e al rafforzamento di strumenti contro la violenza domestica, di genere e alle tappe intermedie prevedibili che portano infine alla morte.

Anche l’informazione però può fare la sua parte. Esistono delle raccomandazioni specifiche per il linguaggio da adottare in simili occasioni. Per esempio usare la giusta definizione, ovvero “femminicidio”, per identificare la violenza e utilizzare un linguaggio libero da pregiudizi e dai dettagli più scabrosi e sensazionalistici. Si devono utilizzare statistiche e dati per far capire l’entità dei fenomeni, difendere la riservatezza della vittima o della persona sopravvissuta e infine fornire informazioni utili. Ma soprattutto bisognerebbe evitare di scavare nel passato dei coinvolti, non alimentando così la curiosità malsana di un pubblico sempre più indifferente alla violenza.

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