Cosa rischia chi condivide materiale intimo non consensuale?

Giorgia Bonamoneta

09/02/2022

Condivisione di materiale intimo non consensuale, reato conosciuto anche con il termine che ha reso noto il fenomeno, ovvero revenge porn. Cosa si rischia e chi rischia?

Cosa rischia chi condivide materiale intimo non consensuale?

Cosa rischia chi condivide materiale intimo non consensuale (NCII)? La domanda potrebbe essere posta anche in un altro modo, cioè con il termine più diffuso di revenge porn, ma in questo contesto spiegheremo perché il termine andrebbe abbandonato in favore di un altro meno lesivo per la vittima.

A livello di legge non cambia, revenge porn e condivisione di materiale non consensuale sono la stessa cosa. Entrambi indicano il reato disciplinato dall’articolo 612 ter del codice penale. Il discorso cambia (e di molto) quando oltre all’idea di punizione, si pensa anche alla possibilità di educare e fermare sul nascere il fenomeno. Il linguaggio, in questo caso, fa la differenza.

Ma quindi cosa si rischia a condividere materiale intimo non consensuale? Per rispondere bisogna allargare il concetto di responsabilità a una catena di indivui molto ampia.

Purtroppo il reato è descrivibile come un vero e proprio fenomeno sociale, dagli alti numeri in fatto di materiale condiviso e utenti unici presenti su gruppi di scambio e condivisione creati appositamente. Non si deve escludere neanche la pubblicazione autonoma su piattaforme, ma in quel caso più che fenomeno si può facilmente rientrare nel concetto di “vendetta del singolo” che intende punire la vittima (spesso conoscente) della condivisione per motivi personali e ugualmente iscritti nel reato descritto all’articolo 612 ter.

Condivisione di materiale non consensuale: cosa comporta

Cosa dice le legge in merito alla condivisione di materiale non consensuale? Stiamo parlando di una legge piuttosto recente e che è stata richiesta e accettata solo quando, per alcune delle vittime, come Tiziana Cantone, era ormai troppo tardi.

La legge 612 ter del codice penale delinea:

Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, dopo averli realizzati o sottratti, invia, consegna, cede, pubblica o diffonde immagini o video a contenuto sessualmente esplicito, destinati a rimanere privati, senza il consenso delle persone rappresentate, è punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da euro 5.000 a euro 15.000.

L’articolo 612 ter prevede due circostanze aggravanti, che sono punite più severamente:

  • se la diffusione d’immagini pornografiche è commessa dal coniuge, ex coniuge o da persona affettivamente legata alla vittima e se i fatti sono commessi tramite strumenti informatici/telematici;
  • se il reato è compiuto su persone incapaci di intendere e di volere o con disabilità o di donne incinte.

In questi casi la pena può essere aumentata dal giudice da un terzo fino alla metà.

Inoltre, tutta la catena di persone che condivide è punibile come il primo che divulga tale materiale. Quindi è meglio fermare la catena, in qualsiasi caso.

Differenza tra revenge porn e condivisione non consensuale di materiale intimo

Qual è la differenza tra revenge porn e condivisione non consensuale di materiale intimo (NCII)? Potrebbero sembrare la stessa cosa, ma non lo sono. A livello pratico forse sì, ma se si vuole iniziare ad attaccare il fenomeno alla radice bisogna chiamare correttamente il reato e lasciare da parte il termine più giornalistico e orecchiabile, oltre che più breve.

Con revenge porn si intende, letteralmente, una “vendetta pornografica”. Messo in questi termini si perde il senso noto a tutti, ovvero la divulgazione di filmati intimi, di atti sessuali o contenuti espliciti. Questo perché il termine “vendetta” e il termine “porno” poco e nulla hanno a che fare con la condivisione di materiale senza il consenso del soggetto protagonista del materiale stesso.

Con “porno” e “pornografia” si intende un materiale commerciale e creato con il consenso delle persone in video. La diffusione è parte del business. La differenza sta tutta nel consenso. Proprio per questo il termine più corretto per intendere il fenomeno di cui stiamo discutendo è condivisione non consensuale di materiale intimo.

Infine un ultimo aspetto importante da sottolineare è il concetto stesso di “vendetta”. Troppe volte l’utilizzo di un linguaggio sessista ha causato una lettura errata delle vicende. Di esempi giornalistici ce ne sono molti, purtroppo, quasi tutti iscrivibili a femminicidi e violenze di genere varie. Con “vendetta” si rischia infatti una ricaduta di accusa nei confronti della vittima. Tale fenomeno è così diffuso da avere un nome: victim blaming.

Un commento tipico che si sentono (online o meno) dire le vittime di condivisione non consensuale di materiale intimo è “potevi non farlo quel video/quella foto”.

Cioè, tradotto: “è colpa tua”. Carlotta Vagnoli, scrittrice e attivista, scrive:

[...] Additare la responsabilità del reato di revenge porn a chi lo subisce significa punire l’espressione della propria sessualità e questo non può e non deve essere il ruolo educativo di una società libera.

Revenge porn o goliardia: cosa si nasconde dietro il fenomeno

Il fenomeno è molto esteso, forse più di quanto viene descritto e raccontato. Solitamente i giornali si accaniscono su particolari dei contenuti video, su qualche particolare gusto della vittima, più che cercare di riconoscere l’identikit del colpevole.

Si verrebbe così a creare un profilo piuttosto comune di uomo etero cis che non ha altro motivo (non c’è vendetta) se non quello goliardico.

A dirlo è uno sondaggio del 2017 della Cyber Civil Rights Initiative (citato da Carlotta Vagnoli ne Maledetta sfortuna). Dal sondaggio emerge che il 79% delle persone che hanno condiviso materiale intimo non lo ha fatto per vendetta o rivalsa, ma solo per goliardia, per “gioco”. Per molti è un gioco, per molte (il fenomeno esiste anche nella comunità LGBTQ+ ma in forma minore) è una violenza che può portare alla morte.

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